Notazioni per una biografia informale. Cap.II
Renata Tebaldi era nata a Pesaro, in un appartamento di via XX Settembre, il 1° di febbraio del 1922. Erano le 5,00 del pomeriggio e nel firmamento dominava l’Acquario.
Pesarese era il papà, Teobaldo, che vantava qualche ascendenza nobiliare, il che sembrava confermato dall’eleganza dell’alta figura. Era un longilineo, forse non bello, ma, ahimé!, dotato di sperimentato fascino virile. Professore di violoncello in orchestra, era stato granatiere nella grande guerra ‘15-18. Ferito, la convalescenza l’aveva trascorsa a Langhirano, nel parmense, e là aveva preso consuetudine con Giuseppina Barbieri, la Peppina, che prestava servizio da infermiera volontaria. Piccola e graziosa, lei, con lineamenti delicati, il naso breve, il mento dolcemente arrotondato e gli zigomi alti, non vantava blasoni (i suoi concorrevano un po’ tutti a gestire il modesto ufficio postale di Langhirano, tra i monti che da Parma conducono verso La Spezia) ma sapeva far valere sagge doti da buona figliola di paese. Ricamava sapientemente, curava l’economia domestica in casa e, forse, realizzava immalinconita anche il vano maturare del tempo giusto per accasarsi. L’impegno d’infermiera volontaria può darsi sia giunto tempestivo a rompere il corso di un destino rassegnato in angusti orizzonti.
Ora, in ospedale, curava con dedizione il giovane Tebaldi, artista per censo e cultura. Contava qualche anno meno di lei, è vero, ma a lui piacque sposarla, quasi una tal saggia decisione servisse a preservarlo da una sperimentata vocazione all’irrequietezza sentimentale; e la coppia venne ad abitare a Pesaro dove lei presto rimase in attesa del primo figlio; solo che, ancora più presto, dovette realizzare che, reinserito nell’ambiente cittadino e teatrale, il giovane violoncellista, senza troppo resistere, era ricaduto tra le braccia di sirene locali.
Peppina partorì una bambina, Renata, e, non appena la piccola in fasce fu in grado d’affrontare un viaggio, preferì riprendere in solitudine la strada del ritorno a Langhirano, fidando soltanto sull’aiuto della famiglia paterna. Il lunario l’avrebbe sbarcato ricamando di fino corredi da sposa per donne sperabilmente più fortunate di lei.
La bambina credette addirittura d’esser orfana di padre fino ai dieci anni. Madre, zii, nonni, avevano saputo supplire assai positivamente ad ogni carenza riuscendo, come detto, a farle superare perfino l’impasse della poliomielite infantile. Poi, bene o malaugurato che sia stato, l’intervento astioso di una compagna di scuola fece conoscere a Renata la verità e lei scrisse d’impeto una letterina al redivivo papà che, inopinatamente, se ne tornò al nido, di nuovo fedele alla moglie per il tempo d’una rosa, quello che i francesi misurano nell’espace d’un matin. Trovò in quel di Parma una seconda compagna di vita e, più o meno nascostamente, divise il suo tempo tra due nuclei familiari.
Nella casa di Langhirano, continuava a godere delle belle doti di una figlia già cresciuta, e la paternità non gli significò mai responsabilità, retta guida, affettuosa sollecitudine: quando a distanza, quando da presso, gli valse solo soddisfazioni a costo zero. Renata subodorò qualcosa.
Ormai diciottenne, l’evolversi assai positivo dei suoi studi musicali (prima di pianoforte, poi affiancati da quelli di canto, all’insaputa della madre che temeva le prospettive ambigue di una carriera teatrale; infine, esclusivamente di canto al Conservatorio di Pesaro) ne propiziava le speranze giovanili. Ma, a metà ‘40, piombò su tutto il fulmine della belligeranza italiana nel secondo conflitto mondiale.
Teobaldo reindossò la divisa di granatiere e, di stanza a Parma, fece un ulteriore fatale incontro con una giovane vedova, vivendo con lei more uxorio. La cosa non tardò a giungere alle orecchie della moglie che presagì la definitività di questo nuovo legame.
Avvilita, non seppe far valere l’innata forza d’animo che pure le era stata di tanto aiuto in precedenza. Una depressione pressoché insuperabile ne minò la salute nervosa. L’insonnia dominò le sue notti e quelle della figlia, inesperta e sgomenta. E chissà che il tutto non abbia contribuito a rivestire di consapevole dolore il canto filiale di Gioconda, così come Renata seppe esprimerlo in scena, anni dopo.
Una volta partito per il fronte, le due donne non seppero altro di Teobaldo. Solo a fine guerra furono informate alla meno peggio ch’era rientrato indenne a Parma, per riprendere la liaison extraconiugale.
Ora, che rientri o meno nei nostri diritti di osservatori delle vicende terrene di un grande personaggio, cosa aggiungere in proposito? E’ possibile che il tradimento non si risolvesse in Teobaldo, animo instabile di artista, in un mero esercizio di virilità; e che, semmai, gli sia stato inconsciamente necessario, come per tanti, nella ricerca di una propria identità sessuale, al di fuori degli schemi della cosiddetta normalità piccolo-borghese a cui era legata, di contro, la cultura della Peppina, educata ad una stabilità di vita inconsapevolmente preclusiva di ogni evoluzione.
Eppure, a bocce ferme, fedeltà forse seppe osservarla anche lui, quando restò legato ad una stessa donna, convivente prima, e, poi, moglie non appena vedovo della Peppina.
Condannare è del tutto comprensibile quando a farlo sono figli adolescenti. Da adulti, di contro, dovrebbe esser colta l’opportunità di capire e rispettare quelle che, più spesso di quanto non si creda, sono sofferte scelte esistenziali. E Renata Tebaldi saprà fare anche questo!
Tra la fine degli anni ‘50 e inizi ‘60, lei era ormai diva consacrata nei teatri lirici di mezzo mondo. Nel ’57, aveva superato con difficoltà il trauma della perdita di sua madre, quando le divenne preziosa la vicinanza di Tina Viganò, una giovane fan che per lei s’era trasformata in insostituibile governante, da qui all’eternità per così dire, allungando la sua ombra protettiva fino all’ultimo giorno di vita dell’idolo d’un tempo. A Renata riferirono che la salute del padre lasciava intravvedere un temibile momento e lei, senza tardare, gli si recò al capezzale. Lui si ristabilì e, per anni ancora, tal figlia onorò cristianamente il padre come già aveva fatto con la madre.
Non l’eran mancate opportune esperienze d’amore che, però, avevan saputo riservarle, immeritatamente, non poche amarezze e delusioni. Quello che non la tradì mai fu, invece, il rapporto incredibile instaurato in reciprocità col suo pubblico, dove l’ammirazione per l’artista si trovava commista ad una rara sorta di affettuosità, rispettosa dei rispettivi ruoli, sì, eppure protettiva al punto da renderla, più che , american style, quasi sorella ed amica di una schiera di amici-ammiratori, sì da reclamare a spiegarlo, a detta di molti, addirittura principi di sociologia.
Vincenzo Ramón Bisogni