Notazioni per una biografia informale. Cap.I
“Ogni petalo un augurio e un bacio di mamma”.
Era il 23 di maggio del 1944 e lei, il 1° di febbraio di quello stesso anno, di anni ne aveva compiuti appena ventidue. Non troppo tempo più in là, incredibilmente, sarebbe stata proprio lei, un’italiana, a far vacillare l’incrollabile fede repubblicana dei meno monarchici tra tutti gli statunitensi, i newyorchesi sì, che, fattisi sudditi convinti, l’avrebbero posta per almeno un ventennio sul trono ambitissimo del loro tempio dell’opera, il Metropolitan (detto anche MET per quel loro uso, e forse abuso, di sigle, abbreviazioni, acrostici).
In quella data ormai lontana – era ancora un giorno di guerra, quando fame e bombardamenti a tappeto forzavano gli italiani a far caso pressoché esclusivamente al problema della sopravvivenza – lei altro non era che una giovane debuttante su di una ribalta operistica, quella del Sociale di Rovigo, teatro non trascurabile nella geografia melodrammatica nostrana.
Era alta, snella, coi capelli bruni sciolti sulle spalle, la pelle bianchissima e gli occhi di zaffiro pregiato: era bella, a farla breve, ma non è che se ne rendesse conto più di tanto. Anzi, le dava pensiero l’incedere a tratti incerto, labile postumo di una poliomielite infantile, superata comunque con l‘assistenza accorta e sacrificata di sua madre. Era difatti sufficiente qualche minimo accorgimento per mimetizzarlo e far sì che quella sua franca bellezza s’irradiasse senz’ombra. Ma a farla sentir bella non era stato sufficiente l’amore dei due ragazzi un po’ speciali che l’avevano prescelta e che lei s’era consentita di amare col fresco trasporto consentito alle ragazze di allora.
Il primissimo, Mario (proprio come il bel pittore di Tosca) – studente di canto anche lui come lo era lei, al Conservatorio di Pesaro con la celebrata Carmen Melis – era bello e conteso da tutte le studentesse di canto del suo e degli altri corsi. Incredula, lo aveva visto scegliere proprio lei, un po’ intimidita dagli approcci ravvicinati che lui avrebbe voluto consentirsi. Lei, poi, era anche un po’ rattenuta dal pensiero di sua madre che le stava, per così dire, col fiato sul collo a salvaguardarla da ogni possibile dolore che gli uomini, a suo dire infidi per natura, avrebbero potuto procurarle. Alla madre, se è per questo, di ragioni per diffidarne non è che ne mancassero! E la figlia, devota e obbediente, aveva lasciato perdere l’innamorato. A dir di più, del suo Mario non ebbe più novella, proprio come racconta del suo Maurizio la Lecouvreur nel 1° atto dell’opera di Cilea. Soltanto qualche anno più tardi, una sorella del ragazzo le avrebbe riferito della triste fine del giovane che – entrato a far parte dell’esercito di Salò in obbedienza agli ordini superiori che tanti militari disorientati avevano ritenuto ineludibili – era incappato in una ronda di partigiani. Si era prontamente nascosto ma aveva con sé un cane-lupo che aveva ringhiato all’indirizzo degli uomini minacciosi. Individuato, il ragazzo era stato impietosamente eliminato.
In quel ‘44, il cuore dell’ignara debuttante era d’altronde rivolto, con beneducato trasporto, al suo secondo ragazzo, Antonio: bello anche lui come un attore di cinema spagnolo, studente di medicina un po’ a tempo perso, dato che il suo bel daffare glie lo davano i possedimenti terrieri di famiglia, talmente sovradimensionati da dover percorrersi addirittura a cavallo. Per di più, Antonio era l’affidabilissimo figlio di un’amica di sua madre, ben felice dell’evoluzione positiva della prima seria liaison della vigilatissima figlia. Antonio, ben spalleggiato dalla suocera, non riteneva opportuno l’avvio di una carriera teatrale della fidanzata: a lei doveva esser d’avanzo un bel diploma in pianoforte. D’altronde, da privatista (!) a Parma, lei aveva già superato la prova di quinto anno di pianoforte col massimo dei voti assegnatole da un esaminatore del calibro di Carlo Vidusso. Ma c’era stato chi s’era avveduto della bellissima voce che lei faceva ascoltare nei solfeggi cantati o quando s’abbandonava, sentimentale com’era, a cantare melodie orecchiate dai fonografi degli ambulanti che giravano nei mercati del parmense dove lei aveva trascorso infanzia, adolescenza e prima parte della giovinezza. Ed eccoli tutti a far pressioni sulla madre: prima, l’insegnante di pianoforte; poi Carmen Melis dall’alto della sua cattedra (aveva ascoltato la ragazza in audizione privata saggiando la malleabilità di uno strumento vocale privilegiato e la ricettività nel tesaurizzare consigli tecnici ed interpretativi); infine, addirittura il grande Riccardo Zandonai, direttore del Conservatorio di Pesaro, che aveva ammonito la madre a non privare il mondo della musica di una voce di tal pregio da non poterne trovare l’uguale che ogni cinquanta o cento anni. E la donna, frastornata, aveva acconsentito agli studi di canto della figlia a Pesaro. Ora l’aveva accompagnata a Rovigo per non lasciarla sola. e Antonio se n’era rimasto nelle sue terre, forse un po’ immusonito, ad attendere notizie: magari si aspettava che, paga di aver calcato in qualche modo un palcoscenico, lei se ne tornasse a casa, stufa di vocalizzi ed esercizi quotidiani, finalmente pronta a realizzarsi come sposa e madre.
Comunque, a Rovigo, in quel 23 maggio del ‘44, la madre scelse per la figlia un fascio di rose bianche e glie le indirizzò, trepida e commossa, con un biglietto sinceramente augurale: “Ogni petalo un augurio e un bacio di mamma”.Fu quello il primo di una miriade di omaggi floreali che la giovane, fattasi presto diva celebrata del canto, vedrà recapitarsi persino a carriera conclusa, quando la dedizione di innumerevoli ammiratori, estimatori, innamorati, sembrerà, se possibile, addirittura decuplicarsi.
E sì che di anni di carriera attiva lei ne aveva trascorsi ben 32, esatti e tondi, come rotondi e perfetti erano stati i suoni della sua voce. In quella sua primissima occasione, lei si trovava impegnata nelle vesti di Elena nel “Mefistofele” di Boito, ruolo di notevole caratura che le chiedeva di avventurarsi col giovane timbro di soprano lirico puro oltre le soglie del lirico-spinto, quasi fino al registro del drammatico. Ma la sua insegnante non aveva nutrito dubbi sulle possibilità che uscisse indenne dal cimento.
Lei cantava a fianco di Tancredi Pasero, nome di risonanza scaligera, mentre sul podio le garantiva affidamento Giuseppe Del Campo che, in un’intervista degli anni ‘90, tutti ancora di là da venire, Carlo Maria Giulini avrebbe addirittura citato tra i grandi della prima metà del secolo.
La giovane debuttò, dunque, e trepida ne scrisse al suo Antonio. Lui tardò mesi prima di risponderle freddamente. Si era visto vanificare pazienti manovre per una possibile rinunzia di lei e, ormai, un normale futuro matrimoniale gli si presentava a dir poco problematico: da non credersi, ma al primo ascolto si contavano già dei fanatici – e quanti altri ce ne sarebbero stati in futuro! – pronti a invocare forte il nome della debuttante, per riapplaudirla alla ribalta, commuoversi alle sue lacrime di riconoscenza, rigoderne il sorriso con le due fossette nelle guance: “Renata, RENATA, RENATA!”; e ancora così per minuti e minuti, instancabili ed entusiasti.
E sì perché la debuttante era lei, la grande Tebaldi, leggenda autentica del teatro d’opera a venire.
Insomma, pur nel pieno della tragedia esistenziale di un’Italia stretta tra due fuochi, pronta a soccombere senza riscatto, ecco che prendeva avvio una favola fastosa, tutta vera e nostrana anch’essa: quella di Renata Tebaldi, soprano italiano.
Vincenzo Ramón Bisogni